Annarita Gigli, il sociale in tempo di pandemia

//Annarita Gigli, il sociale in tempo di pandemia

Annarita Gigli, il sociale in tempo di pandemia

2021-01-20T10:03:16+01:00 News|

Il Covid-19 ha stravolto le vite di ognuno di noi. Ha imposto un nuovo modo di vivere. Ha portato via il gusto di un abbraccio e lasciato la paura per sé e per gli altri. È cambiato anche il modo di lavorare, ma non è cambiata la professionalità, la dedizione e la passione degli operatori di Polis cooperativa sociale.

Annarita Gigli, operatrice nell’assistenza domiciliare per anziani, ha lavorato con nuove regole, con maggiori attenzioni, con la mascherina, i guanti e il distanziamento sociale. Come è stato questo anno per emozioni, fatica, rapporti umani?

“È stato un anno molto particolare, durante il quale abbiamo dovuto affrontare la paura dei nostri utenti e la nostra. Abbiamo dovuto svolgere il nostro lavoro che è fatto anche di ascolto. In questo periodo i nostri utenti sono rimasti chiusi in casa, isolati volontariamente dalle famiglie e dalle conoscenze, perché presi dalla paura di essere contagiati o di contagiare. Non volevano ammalarsi, giustamente, e così tutto è diventato più difficile. La paura ha colpito i rapporti personali, si sono persi i contatti umani, ci si è dimenticati del contatto fisico: prima era la norma un abbraccio, una stretta di mano, adesso niente più. Anche la mascherina è una barriera che ti priva di un sorriso. La fiducia non è mai venuta meno, solo paura che ha portato con sé la solitudine. Perché di quella ce n’è tanta, soprattutto per gli anziani”.

Il lockdown di marzo, prolungato, è stato un’esperienza difficile, poi l’estate e la parvenza di normalità, per tornare a chiudersi, quali sono le differenze tra i due periodi a livello lavorativo e umano?

“Non ci sono molte differenze tra i due periodi. Certo a marzo molti servizi domiciliari erano stati sospesi, adesso sono ripresi tutti. Sicuramente c’è più attenzione, maggior rispetto delle regole. A primavera c’è stato un momento in cui la paura ha prevalso e anche gli utenti facevano tante cose da soli, ci facevano fare meno. Adesso posso dire che sono loro stessi ad essere più scrupolosi, ma anche un po’ meno soli. Rispetto alla primavera, quando molti utenti uscivano di casa solo per visite mediche, in quest’ultimo periodo, con attenzione, si sono potute fare passeggiate al parco, intorno a casa. Con qualcuno si è anche andati a fare spesa. A marzo c’era proprio paura, ora c’è sempre preoccupazione, ma non quel timore della primavera scorsa”.

Quello dell’operatore domiciliare è un lavoro particolare, cosa dà la forza di alzarsi ogni mattina, andare a casa delle persone e portare a termine la giornata pur di fronte al Covid-19?

“La familiarità che si crea nel tempo non è stata spezzata dal Covid. Siamo andati nelle case dei nostri utenti come prima, solo con più accorgimenti e protezioni. A differenza delle strutture per anziani, il fatto di andare nelle loro case, crea un rapporto diverso. Diventi uno di loro e a quel punto si gioca tutto sull’aspetto umano. Oltre alla passione per questo lavoro, quindi, subentra anche un qualcosa in più: diventi un punto di riferimento per queste persone e nasce spontaneo il desiderio di fare qualcosa per loro, di non abbandonarli. E così è stato anche a marzo, quando abbiamo garantito la presenza proprio per loro, anche solo per un attimo di compagnia, oppure andare a fare la spesa e portarla in casa. Gesti familiari, ma che per loro sono stati tutto”.

La quotidianità nell’emergenza sanitaria e sociale è cambiata. È successo lo stesso nel rapporto con assistiti e familiari, cosa vi dicono, cosa confidano?

“Gli anziani chiusi in casa guardano e sentono molto la tv. Così quando arriviamo ci chiedono subito com’è la situazione fuori, vogliono conferme di quello che hanno visto in televisione. Quasi come se volessero vedere il mondo attraverso i nostri occhi. A volte capita che hanno capito male o l’informazione non era corretta, così spieghiamo se c’è un errore. La loro preoccupazione maggiore è per i figli o i nipoti, del non vederli per un po’. Certo, ci confidano le loro paure, perché lo sanno che sono a rischio. Qualcuno è uscito in estate, altri non escono da un anno di casa, se non per visite mediche; e non vedono più nessuno. Subentra così la depressione, la solitudine, c’è anche un peggioramento delle condizioni di salute. Questo è un fatto preoccupante al quale si cerca di porre rimedio fermandosi un po’ di più a parlare, a confortare le persone. Con i familiari si parla un po’ di più, ci si confronta per il bene dei nostri utenti. Una cosa è cambiata molto: prima si prendeva un caffè insieme, con le tazzine del servizio, adesso in molti casi, giustamente, c’è il bicchierino di plastica. Un segnale duplice: la paura del contagio, ma anche che le nuove regole sono state imparate”.

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